mercoledì 11 maggio 2016

Romolo Valli, un attore critico - Articolo di Dante Cappelletti, Il Dramma, Marzo 1978

In foto: Romolo Valli nei panni di Leone Gala, "Il giuoco delle parti", regia di Giorgio De Lullo, stagione 1975-76, Compagnia "Romolo Valli".



Spesso si vanno a cercare i modelli all’interno dei quali poter inquadrare il lavoro e l’immagine degli attori. Quei modelli si rifanno, in generale, ai grandi trattati teorici sull’arte interpretativa. In questo secolo due grandi direzioni hanno riassunto i principali atteggiamenti degli attori: da una parte l’ipotesi stanislavskiana, dall’altra quella brechtiana. Nel primo caso si va a privilegiare, del dato interpretativo, la partecipazione emotiva, l’identificazione col personaggio; nel secondo caso si mette in evidenza l’aspetto dimostrativo, la recitazione, cioè, come distanza critica dal personaggio (come tutti ricorderanno Brecht chiamava questo procedimento « straniamento »). In tempi passati, a riguardo dei due diversi atteggiamenti, è nata una vera e propria polemica che, giustamente, oggi tende a scomparire. Da una inchiesta che avevo compiuto tra il 1969 e il 1970 avevo riscontrato l’impossibilità da parte degli attori a riconoscersi totalmente in una teoria piuttosto che nell’altra. Si capiva che il metodo interpretativo mutava, caso per caso, a seconda delle circostanze, ed era impossibile definire esattamente un codice dell’arte attoriale. Gli attori che avevo preso in esame erano trenta e mi sembrava che rappresentassero abbastanza bene l’universo degli attori italiani. Ma Romolo Valli a quale categoria di attori apparteneva esattamente? Me lo ero chiesto più di una volta e, sinceramente, non riuscivo a dare una risposta precisa. Oggi capisco che la definizione che cercavo non esiste e proprio lui, Valli, me lo aveva chiarito. Nel suo lavoro erano evidenti tutte le implicazioni che esistevano tra modello interpretativo e atteggiamento storico-culturale. L’attore Valli riassumeva in sé un’esperienza molto più vasta, quella che veniva dalla partecipazione a diversi e complessi momenti della nostra scena. Mi chiedevo — e mi chiedo tutt’ora — quanto del lavoro compiuto a latere della scena (operazione teatrale e culturale) rifluiva nella elaborazione dei suoi personaggi. Forse è difficile stabilirlo con precisione e nessuno lo può dire con esattezza. Certo, se non si tiene conto della pratica sociale del Valli manager e organizzatore, delle sue letture e del suo costante rapporto con la storia (non solo la storia del teatro e dello spettacolo), credo che non si possa capire a pieno il valore di certi risultati ottenuti sul palcoscenico. Nel suo lavoro di attore c’è una costante ricerca di motivazioni al personaggio che rappresenta, uno sforzo di renderlo sempre più chiaro, di offrirlo come oggetto di dibattito. Si tratta di un’operazione critica che non conosce dei precisi confini e che ha tutto il senso di una proposta aperta. Per questo il pubblico ama Valli, sente che è un attore che si mette a completa disposizione affinché si operi un dialogo che ha quasi sempre la forma della confidenza. Qualcuno ha notato che nessuno, meglio di Valli, incarna il tipo di attore borghese nella scena italiana, di contro alla resistente figura del mattatore, dell’istrione che affonda le sue origini in una più lontana tradizione del nostro teatro. Questo è vero, senza dubbio, ma non è il solo dato caratterizzante. Se diamo uno sguardo al repertorio da lui interpretato non possiamo fare a meno di osservare l’attore che ha partecipato ad operazioni di approfondimento e recupero della nostra drammaturgia, valga per tutti il caso della « riscoperta pirandelliana », compiuta insieme a De Lullo dagli anni sessanta in poi. E non è cosa da poco anche se, in fondo, non è stata oggetto da parte degli studiosi di una approfondita analisi: solo di recente Alonge ha messo a fuoco i caratteri di grande novità nella messinscena del « Giuoco delle parti » compiuta appunto da De Lullo-Valli. Ricordo un colloquio avuto con Valli nel 1968, alla vigilia del debutto nell 'Amica delle mogli. In quell’occasione l’attore mi parlava della dimensione europea di Pirandello, di come l’autore siciliano non poteva essere racchiuso in quella visione regionalistica (come vorrebbe ancora Sciascia) che, in qualche modo ne limita la portata e il significato. Parlammo del valore del rito nel teatro pirandelliano e di come fosse necessario, tramite una specie di lettura strutturale, mettere in evidenza la dinamica dei « doppi » e delle ambiguità, di contro ai modelli apparenti di una fabula naturalistica. Le sue osservazioni mi sembrarono molto acute e non credevo che avrebbero anticipato tante riflessioni successive. Convinto iom’ero che l’attore fosse un « acculturizzato » e non un colto, mi stupii un pò e pensai a come quella forma di alta coscienza critica avrebbe potuto tradursi nell’interpretazione scenica. 

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