domenica 19 giugno 2016

Valli operatore teatrale - IL DRAMMA, MARZO 1978


VALLI OPERATORE TEATRALE -  (IL DRAMMA, MARZO 1978, stralcio dell' articolo di Dante Cappelletti).






D: Comincerei dal Valli operatore teatrale. Mi pare che questa sia una dimensione che oggi appare particolarmente percepibile, in realtà è una costante del tuo lavoro. Vuoi darne una motivazione, oppure ritieni che sia un fatto del tutto casuale, contingente, legato agli ultimi episodi del tuo lavoro? 



R: La mia attività di operatore teatrale accanto al lavoro di attore non è un fatto casuale. Anzi, credo che un atteggiamento del genere vada chiarito una volta per tutte. La componente operativa, nella direzione culturale e in quella manageriale, trae origine da una specie di attitudine « psicofisiologica » del mio carattere. Una specie di mia perenne esistenziale insoddisfazione mi porta a ritenere lo spazio delle tre ore di recita insufficiente ad affrontare un ventaglio di ambizioni e di domande che sono molto più ampie. Ma andiamo per ordine, guardando le cose nel lóro sviluppo naturale. La base di un atteggiamento, legato — come mi accade quasi sempre — alla necessità dell’intervento socio-culturale, è affermata in maniera definitiva dalla militanza politico-sociale delPimmediato dopoguerra. Finito il periodo bellico, trascorso molto duramente in campi di lavoro tedeschi a cui fece seguito la fuga e la militanza-nella Resistenza, rientrai a Reggio nel ’45. Compii i miei quattro anni universitari a Parma e mi laureai in legge. Durante quel periodo si formò la mia precisa struttura di uomo e operatore culturale. Anche se la Giurisprudenza non mi interessava (era un omaggio alla volontà di mio padre), vivere a Reggio e a Parma in quei quattro anni aveva voluto dire il contatto continuo con un gruppo di intellettuali assolutamente prestigiosi, che si chiamavano Macrì, Sereni, Bertolucci, Bianchi, Borlenghi, Bo. Attilio Bertolucci ci faceva vedere i films e ci insegnava a leggere Proust, da Macrì imparavamo il verso di Garcia Lorca. Detto per inciso, il mio debutto vero non l’ho fatto in teatro ma nell’ambito di un ciclo di conferenze dello stesso Macrì che, tornato dalla Spagna nel ’46, aveva ricostruito la morte di Garcia Lorca. In quella circostanza io leggevo sia in lingua catalana che italiana i versi del grande poeta spagnolo, girando per l’Emilia in una vera e propria tournée. Il mio vero maestro di dizione, perciò, è stato un letterato, e questo spiega perché la mia militanza teatrale sia stata legata più a uomini di letteratura che di teatro. In una specie di rigogliosa ricerca di spazi culturali e politici — che la gioventù allora disperatamente cercava — ci inventavamo la vita, la democrazia e i valori sui quali poter contare. Ci riunivamo per assistere alla proiezione di films come La Corazzata Potemkin e con i miei amici recitavamo in Pìccola città di Thornton Wilder e Assassinio nella cattedrale di Eliot. Parallelamente avevo cominciato a fare il critico cinematografico in un giornale e teatrale in un altro. A ll’epoca del Fronte Popolare uscì un quotidiano che era molto importante, Il lavoro di Reggio: ne divenni non solo un redattore, ma un po’ il factotum, infatti mi occupavo perfino della cronaca giudiziaria. La mia attività, comunque, non si doveva esaurire lì, se alcuni miei, amici tempo fa hanno stabilito che dirigevo ben quattordici circoli culturali. Questo era possibile anche perché possedevo — come tuttora posseggo — una disponibilità e autonomia politica per qualsiasi voce democratica, senza che mi identificassi con alcun partito. Ho sempre sentito il privilegio dell’indipendenza intellettuale, naturalmente su basi laiche e di totale apertura: questo mio atteggiamento è stato spesso criticato e oggetto di polemiche sia da destra che da sinistra, ma io ho sempre considerato un privilegio la mia indipendenza ideologica, come l’innato bisogno di qualsiasi dialogo. Così diressi il circolo Curiel, che era una emanazione del PCI senza privare della mia presenza l’OGI (Organizzazione Giovanile Italiana), che era di estrazione cattolica. Ero amico sia di Pippo Dossetti, oggi vescovo e uomo straordinario, ma ero anche amico di Alberto Simonini del PSI o di Magnani del PCI. Ritengo la mia posizione, fulcro di una naturale disponibilità a una costante dialettica e ad un confronto pluralistico senza prevenzioni. Questo è un punto fondamentale della mia vita: che ha caratterizzato non solo il periodo del dopoguerra, ma anche gli anni successivi fino ad oggi. Sono convinto che una posizione libera, fuori da ogni schematismo ideologico, giovi all’artista, all’intellettuale, a qualsiasi uomo di cultura; il vero impegno non sta negli « engagements » così tipici degli anni ’50, ma in quello che si ha verso se stessi: lo diceva anche Vittorini nella polemica del « piffero e la rivoluzione ».