VALLI OPERATORE TEATRALE - (IL DRAMMA, MARZO 1978, stralcio dell' articolo di Dante Cappelletti).
D: Comincerei dal Valli operatore teatrale. Mi pare che questa sia una dimensione che oggi appare particolarmente percepibile, in realtà è una costante del tuo lavoro. Vuoi darne una motivazione, oppure ritieni che sia un fatto del tutto casuale, contingente, legato agli ultimi episodi del tuo lavoro?
R: La mia attività di
operatore teatrale accanto al lavoro di attore non è un fatto casuale. Anzi,
credo che un atteggiamento del genere vada chiarito una volta per tutte. La
componente operativa, nella direzione culturale e in quella manageriale, trae
origine da una specie di attitudine « psicofisiologica » del mio carattere. Una
specie di mia perenne esistenziale insoddisfazione mi porta a ritenere lo
spazio delle tre ore di recita insufficiente ad affrontare un ventaglio di
ambizioni e di domande che sono molto più ampie. Ma andiamo per ordine,
guardando le cose nel lóro sviluppo naturale. La base di un atteggiamento,
legato — come mi accade quasi sempre — alla necessità dell’intervento
socio-culturale, è affermata in maniera definitiva dalla militanza
politico-sociale delPimmediato dopoguerra. Finito il periodo bellico, trascorso
molto duramente in campi di lavoro tedeschi a cui fece seguito la fuga e la
militanza-nella Resistenza, rientrai a Reggio nel ’45. Compii i miei quattro
anni universitari a Parma e mi laureai in legge. Durante quel periodo si formò
la mia precisa struttura di uomo e operatore culturale. Anche se la
Giurisprudenza non mi interessava (era un omaggio alla volontà di mio padre),
vivere a Reggio e a Parma in quei quattro anni aveva voluto dire il contatto
continuo con un gruppo di intellettuali assolutamente prestigiosi, che si
chiamavano Macrì, Sereni, Bertolucci, Bianchi, Borlenghi, Bo. Attilio
Bertolucci ci faceva vedere i films e ci insegnava a leggere Proust, da Macrì
imparavamo il verso di Garcia Lorca. Detto per inciso, il mio debutto vero non
l’ho fatto in teatro ma nell’ambito di un ciclo di conferenze dello stesso
Macrì che, tornato dalla Spagna nel ’46, aveva ricostruito la morte di Garcia
Lorca. In quella circostanza io leggevo sia in lingua catalana che italiana i
versi del grande poeta spagnolo, girando per l’Emilia in una vera e propria
tournée. Il mio vero maestro di dizione, perciò, è stato un letterato, e questo
spiega perché la mia militanza teatrale sia stata legata più a uomini di
letteratura che di teatro. In una specie di rigogliosa ricerca di spazi
culturali e politici — che la gioventù allora disperatamente cercava — ci
inventavamo la vita, la democrazia e i valori sui quali poter contare. Ci
riunivamo per assistere alla proiezione di films come La Corazzata Potemkin e
con i miei amici recitavamo in Pìccola città di Thornton Wilder e Assassinio
nella cattedrale di Eliot. Parallelamente avevo cominciato a fare il critico
cinematografico in un giornale e teatrale in un altro. A ll’epoca del Fronte
Popolare uscì un quotidiano che era molto importante, Il lavoro di Reggio: ne
divenni non solo un redattore, ma un po’ il factotum, infatti mi occupavo
perfino della cronaca giudiziaria. La mia attività, comunque, non si doveva
esaurire lì, se alcuni miei, amici tempo fa hanno stabilito che dirigevo ben
quattordici circoli culturali. Questo era possibile anche perché possedevo —
come tuttora posseggo — una disponibilità e autonomia politica per qualsiasi
voce democratica, senza che mi identificassi con alcun partito. Ho sempre
sentito il privilegio dell’indipendenza intellettuale, naturalmente su basi
laiche e di totale apertura: questo mio atteggiamento è stato spesso criticato e
oggetto di polemiche sia da destra che da sinistra, ma io ho sempre considerato
un privilegio la mia indipendenza ideologica, come l’innato bisogno di
qualsiasi dialogo. Così diressi il circolo Curiel, che era una emanazione del
PCI senza privare della mia presenza l’OGI (Organizzazione Giovanile Italiana),
che era di estrazione cattolica. Ero amico sia di Pippo Dossetti, oggi vescovo
e uomo straordinario, ma ero anche amico di Alberto Simonini del PSI o di
Magnani del PCI. Ritengo la mia posizione, fulcro di una naturale disponibilità
a una costante dialettica e ad un confronto pluralistico senza prevenzioni.
Questo è un punto fondamentale della mia vita: che ha caratterizzato non solo
il periodo del dopoguerra, ma anche gli anni successivi fino ad oggi. Sono
convinto che una posizione libera, fuori da ogni schematismo ideologico, giovi
all’artista, all’intellettuale, a qualsiasi uomo di cultura; il vero impegno
non sta negli « engagements » così tipici degli anni ’50, ma in quello che si
ha verso se stessi: lo diceva anche Vittorini nella polemica del « piffero e la
rivoluzione ».
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